Separazione e divorzio: il giudice stabilisce l’assegno di mantenimento all’ex moglie in base non solo ai redditi dichiarati, ma anche del tenore di vita, delle spese e del conto in banca del coniuge.
In caso di separazione e divorzio, il momento della quantificazione dell’assegno di mantenimento è certamente quello più delicato di tutta la causa: in questo si accaniscono spesso le richieste dei due coniugi, consapevoli del fatto che basta un minimo elemento (di reddito o spesa) a spostare l’ago della bilancia da un lato o dall’altro. Ed è chiaro che il giudice, nel fissare quanto il marito debba versare alla moglie a titolo di mantenimento, non tiene solo conto delle esigenze di quest’ultima e del tenore di vita che la coppia ha avuto durante il matrimonio, ma anche delle concrete possibilità del marito; a rilevare, infatti, è certamente la sua capacità di mantenere l’ex, sulla base del reddito posseduto o delle eventuali proprietà immobiliari nonché delle nuove spese a cui questi va incontro, come l’affitto, il mutuo sulla vecchia casa o la presenza di una nuova famiglia con figli, a cui comunque egli ha diritto.
Una cosa però è certa: ingannare il giudice non è facile, anche perché il magistrato ha una serie di elementi di cui tenere conto per valutare la capacità di mantenimento dell’uomo nei confronti della donna (lo stesso discorso, ovviamente, può essere fatto anche al contrario, sebbene statisticamente meno ricorrente). Tra questi sicuramente c’è, in primo luogo, la dichiarazione dei redditi e il modello Unico inviato all’Agenzia delle Entrate: tanto più è alto il guadagno del contribuente, tanto maggiore sarà la quota che dovrà versare all’ex moglie.
Ma sbaglia chi crede che, modificando i propri redditi fiscali, l’assegno di mantenimento decresca automaticamente. Dicevamo, infatti, che ingannare il giudice non è così semplice come può sembrare e se il coniuge svolge un’attività che potrebbe essere “a rischio evasione” (in genere lo sono quelle dei lavoratori autonomi come professionisti e imprenditori), il tribunale può ordinare un’integrazione di indagine. Come? Certamente obbligando il contribuente a depositare i propri estratti conto con la giacenza media, in modo da verificare quanto questi abbia depositato in banca. Senza dimenticare che, nel caso sussistano ancora dubbi, potrebbero essere delegate le indagini tributarie.
Mantenimento: conta più Unico o il conto corrente?
Tutti questi aspetti sono stati recentemente chiariti da una sentenza del Tribunale di Roma [1]. I giudici della capitale giustamente ammoniscono: nelle cause di separazione e divorzio, in caso di contestazioni tra gli ex coniugi, le dichiarazioni presentate al fisco non assumono alcun valore vincolante ai fini della decisione finale; pertanto diventa indispensabile verificare l’effettiva situazione patrimoniale dell’onerato. E, di certo, una valida radiografia è certamente il conto in banca.
Per cui, rispondendo alla domanda iniziale di questo articolo, cioè se “per determinare l’assegno di mantenimento, conta di più la dichiarazione dei redditi o il conto in banca?”, la risposta viene da sé: il punto di partenza è certamente il modello Unico, ma il giudice, se lo ritiene, può andare oltre e spingere le indagini ai depositi sul conto e, in caso di discrepanza tra i due dati, credere più a questi ultimi che sono una fotografia della realtà materiale e non di quella autodichiarata all’Agenzia delle Entrate.
Si legge infatti in sentenza che, quando il modello fiscale Unico sconfessa i redditi dichiarati in sede di separazione e tenendo conto che le dichiarazioni dei redditi (che hanno una funzione tipicamente fiscale) non assumono rilievo decisivo e non rivestono valore vincolante, la movimentazione bancaria e la situazione patrimoniale sono certamente dei dati indispensabili per determinare l’assegno di divorzio in favore del coniuge più debole e dei figli da mantenere.
I redditi dichiarati – argomenta il tribunale di Roma – non possono costituire una prova completa e definitiva a favore di chi li produce; se così fosse, chiunque si potrebbe precostituire e creare una prova a proprio favore attraverso una propria dichiarazione, tanto più quando i redditi denunciati non sono certificati da terzi soggetti sostituti d’imposta e la veridicità della dichiarazione dipende interamente dal dichiarante. Tale circostanza impone maggiore cautela nell’accertarla come indizio delle effettive possibilità economiche dello stesso.
Mantenimento: l’indagine sul tenore di vita effettivo
Non solo. Il conto corrente può essere anche intestato ai propri genitori o al nuovo partner. Così la giurisprudenza strizza un occhio anche all’accertamento del concreto tenore di vita tenuto dal marito: vivere, ad esempio, in una lussuosa villa con 8 vani e giardino, possedere altri immobili per le vacanze, essere spesso in viaggio non è certamente compatibile con un reddito di poche migliaia di euro l’anno. E dunque, sospettare un fenomeno di evasione fiscale o, quantomeno, di occultamento dei redditi è più che fondato. Del resto è la stessa Cassazione ad aver sempre affermato che “l’assegno di divorzio ha la finalità di tutelare il coniuge economicamente più debole, a maggior ragione se il matrimonio non abbia avuto breve durata”: il che significa che è in ragione di questa tutela che bisogna scovare a fondo nei redditi del coniuge obbligato.
Assegno di mantenimento verso il tramonto?
Va detto in conclusione che, di recente, l’indirizzo della giurisprudenza è diventato meno generoso nei confronti delle donne giovani ed ancora in età di lavoro, specie se con una formazione già compiuta, esperienze lavorative alle spalle e, quindi, “abili al lavoro”. Per esse, infatti, la “comprensione” è certamente ridotta rispetto a quella nei confronti di una donna che per un’intera vita si è dedicata alla casa, così svuotandosi di professionalità e divenendo per essa più difficile ricercare una occupazione. Insomma, il matrimonio non è più un’assicurazione a vita: chi è ancora in grado di lavorare, deve tentare di occuparsi, senza potersi mantenere alle spalle del marito vita natural durante.
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[1] Trib. Roma, sent. n. 23704/15.
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Fonte: www.laleggepertutti.it