Il diritto agli alimenti o al mantenimento nel caso di separazione o divorzio lascia margini di discrezionalità alla decisione del giudice. L’assegno di divorzio continua a sollecitare interventi chiarificatori della Cassazione tesi a definire regole quanto più oggettive e generali possibili, alla luce delle indefinite e variegate decisioni dei tribunali, ognuno ancorato a valutazioni proprie e, spesso, contraddittorie.
LA SENTENZA
Corte di Cassazione, sez. VI Civile.
Ordinanza 19 febbraio – 4 aprile 2016, n. 6433
Presidente Ragonesi – Relatore Mercolino
Fatto e Diritto
E’ stata depositata in Cancelleria la seguente relazione, ai sensi dell’art. 380bis cod. proc. civ.:
« 1. – Con la sentenza di cui in epigrafe, la Corte d’Appello di Roma ha accolto parzialmente l’appello proposto da A.S. avverso la sentenza emessa il 4 gennaio 2012, con cui il Tribunale di Frosinone, nel pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dall’appellante con R.A., aveva posto a carico di quest’ultimo l’obbligo dì corrispondere l’assegno divorzile, ed ha rideterminato l’importo dell’assegno in Euro 590,00 mensili, da rivalutarsi annualmente secondò l’indice Istat, con decorrenza dal mese di febbraio 2012, rigettando l’appello incidentale proposto dall’A..
2. – Avverso la predetta sentenza l’A. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi, al quale la S. ha resistito con controricorso.
3. A sostegno dell’impugnazione, il ricorrente ha dedotto:
a) la violazione e la falsa applicazione dell’art. 5 della legge 1 ° dicembre 1970, n. 898, sostenendo che, ai fini del riconoscimento e della
b) la violazione e la falsa applicazione dell’art. 91 cod proc. civ., affermando che, nel condannarlo al pagamento delle spese processuali, in virtù del rigetto dell’appello incidentale, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dell’accoglimento soltanto parziale della domanda di rideterminazione dell’assegno divorzile, che avrebbe giustificato quanto meno la compensazione delle spese.
4. – Il primo motivo è infondato.
Ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno, la sentenza impugnata si è correttamente attenuta all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, che nell’ambito del relativo accertamento distingue due fasi, la prima diretta a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazioneall’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, e la seconda volta alla determinazione in concreto dello assegno, sulla base delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, da valutarsi anche in rapporto alla durata del matrimonio (cfr. Cass., Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11870; 15 maggio 2013, n. 11686; 4 ottobre 2010, n. 20582). Nel valutare l’adeguatezza delle risorse economiche a disposizione della S., essa non ha affatto omesso di conferire rilievo alla capacità lavorativa della stessa, avendo dato opportunamente atto che a seguito della separazione dal coniuge ella ha trovato occupazione come lavoratrice dipendente, ma avendo anche accertato che la relativa retribuzione non le consente di mantenere un tenore di vita comparabile a quello goduto nel corso della convivenza; nell’ambito di tale verifica, la Corte di merito ha peraltro valorizzato anche la difficoltà di reperireun’occupazione adeguata, in conseguenza dell’età della controricorrente e dell’attuale situazione di crisi economica, in tal modo conformandosi al principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui la mera attitudine al lavoro del coniuge che richiede l’assegno non è sufficiente, se valutata in modo ipotetico ed astratto, a dimostrare il possesso di un’effettiva capacità reddituale, dovendosi tener conto delle concrete prospettive occupazionali connesse a fattori di carattere individuale ed alla situazione ambientale, nonché delle reali opportunità offerte dalla congiuntura economico-sociale in atto (cfr. Cass., Sez. I, 23 ottobre 2015, n. 21670; 17 gennaio 2002, n. 432; 19 luglio 1980, n. 4741). Non ha poi fondamento l’affermazione secondo cui la sentenza impugnata avrebbe fatto ricadere sull’A. i maggiori oneri conseguenti al trasferimento dell’abitazione della S. da Ceprano a Roma, in quanto, indipendentemente dal carattere necessitato di tale scelta, imposta dal reperimento di un impiego nella Capitale, la Corte distrettuale ha precisato di non averne tenuto conto ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno. La funzione eminentemente assistenziale di tale contributo, volto a tutelare il coniuge economicamente più debole, esclude infine la possibilità di negarne l’attribuzione invirtù della breve durata della convivenza, la quale può venire in considerazione, in concorso con altri elementi, esclusivamente ai fini della commisurazione del relativo importo, a meno che, per volontà e colpa del richiedente, non abbia impedito la formazione di una comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi, in modo tale da far ritenere che il vincolo coniugale si sia solo formalmente costituito (cfr. Cass., Sez. VI, 26 marzo 2015, n. 6164; Cass., Sez. 1, 22 marzo 2013, n. 7295; 16 giugno 2000, n. 8233). Nella specie, peraltro, tale eventualità non è stata in alcun modo prospettata, essendo emersa sul tanto una rilevante sproporzione tra la durata della convivenza (protrattasi per poco più di tre anni) e quella del matrimonio (scioltosi a circa quindici anni di distanza dalla celebrazione), rispetto alla quale la sentenza impugnata ha ritenuto, con motivazione immune da vizi logici, di dover attribuire prevalente rilievo al vistoso squilibrio tra le condizioni economico patrimoniali delle parti.
5. – Ealtresì infondato il secondo motivo.
Nel condannare l’appellato al pagamento delle spese processuali, nonostante l’accoglimento soltanto parziale del gravame principale, la sentenza impugnata ha fatto puntuale applicazione del criterio della soccombenza, avendo tenuto conto dell’esito complessivo del giudizio,sostanzialmente favorevole all’appellante, in quanto contraddistinto dalla liquidazione dell’assegno in misura superiore a quella determinata dalla sentenza di primo grado e dal rigetto dell’appello incidentale, con cui era stata chiesta l’esclusione dell’obbligo di corrispondere il predetto contributo. L’accoglimento soltanto parziale della domanda non attribuisce d’altronde alla controparte il diritto alla compensazione, totale o parziale, delle spese processuali, trattandosi di un provvedimento rimesso al potere discrezionale del giudice di merito, che prescinde da una valutazione della soccombenza in termini puramente quantitativi (cfr. Cass., Sez. II, 11 gennaio 1979, n. 199; 26 gennaio 1978, n. 375).».
Il collegio, esaminato il ricorso, la relazione e gli scritti difensivi in atti, ritiene condivisibile l’opinione espressa dal relatore e la soluzione da lui proposta.
II ricorso va pertanto rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.P.Q.M.La Corte rigetta il ricorso, e condanna A. R. al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi Euro 2.100,00, ivi compresi Euro 2.000,00 per compensi ed Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
Ai sensidell’art. 13, comma 1-quaier, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo art. 13.
Ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
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[1] Art. 438 Cod. Civ.: Gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento. Essi devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale. Il donatario non è tenuto oltre il valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio.
[2] Cass., sent. n. 6433/2016.
[3] In questo senso anche: Cass, sent. n. 21670/2015.
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Fonte: laleggepertutti.it